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Palermo una città indietro di 30 anni

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’immaginario collettivo che crea una città che non c’è e chi la rivendica viene apostrofato come “nemico della contentezza”.Quanti di noi sognano, sperano di vivere in una città diversa, migliore, funzionante, che sappia mettere a frutto le proprie inestimabili ricchezze e patrimoni. Chi è che non crede che la centralità geografica nel mediterraneo, come la storia ci racconta, possa essere una chance imprescindibile di svolta economica, magari con un sistema portuale commerciale e di cantieristica navale degno di tale nome, magari anche con un centro fieristico euro mediterraneo, ma ancora di più visto la mitezza climatica che la natura ci ha donato, non pensa che potremmo vivere tutti di turismo.

 

Chi non vorrebbe una città, come qualsiasi in Europa, con uno o più parchi magari con suggestivi laghetti pieni di uccelli acquatici dove poter trascorrere del tempo con i propi figli o amici, o dei veri percorsi ciclabili che non violentino la viabilità o che non finiscano contro un palo. Quanti di noi, in una città di mare, come la nostra, non desidererebbero vedere un lungo mare con il prato verde curato, attrezzato e mantenuto con aiuole piene di fiori colorati che magari giornalmente disegnino armonie diverse. Chi non vorrebbe un centro storico che lasci definitivamente il fascino della decadenza per arricchirsi della bellezza del restauro. Quanto sarebbe proficuo avere periferie riqualificate, quartieri satelliti che da meri dormitori ridiano dignità a chi li vive facendoli uscire dalla ghettizzazione dello stereotipo del degrado e della delinquenza. Ma quando qualcuno “osa” pensare tutto ciò, che vale la pena ricordare è la base della normalità in pari città in tutta Europa, viene da molti anni apostrofato quale “nemico della contentezza”. Ormai slogan ufficiale di chi questa città la governa da parecchio tempo. Ma una città va solo governata? Forse no. Per una città ci vuole visione, coraggio, ambizione e consapevolezza delle priorità, controllo e cognizione della propria vocazione, necessità di una concreta dimensione concettuale. Sapere cosa si può fare e cosa no. Ma certamente fare ciò che si può e in alcuni casi si deve. Già nel lettore che legge queste scarne righe sento riecheggiare un altro dei più usati luoghi comuni: “si ma a Palermo ci sono i palermitani, vastasi e irrispettosi della cosa pubblica” nutriti dalla convinzione che ciò che si trova al di fuori delle proprie curatissime case non sia di nessuno. In realtà potrebbe anche non essere così, il bello e l’ordine educano più di qualunque altra cosa, spingono al rispetto e al senso civico. Mentre l’incuria e il degrado generano pari comportamenti.

 

In realtà ormai questi, come tanti altri, per Palermo sono rimasti meri luoghi comuni, mai realizzati e forse ancora di più drammaticamente mai pensati. Una città che è rimasta inesorabilmente indietro, con i propi cittadini piombati nel limbo dell’immaginario collettivo in cui alla fine tutto appare sopportabile e sufficiente per accontentarsi.

 

L’immaginario collettivo della “palermitanitudine” crea una città che non c’è che forse non è mai esistita fomentata da proclami che l’allontanano sempre più dalla vera normalità e qualità della vita. Quell’idea generalizzata che nasce dalla sintesi cumulativa di più pensieri, che pur partendo da un pensiero personale, al momento che viene condiviso con gli altri assume una propria diversa identità, che spesso non è neanche lontanamente vicina a ciò che ognuno di noi pensa veramente.

 

Di fatto la percezione che ognuno di noi ha di Palermo viene mescolata tra le comuni opinioni, facendo un’altra sopportabile convinzione, un’altra verità, un’opinione generalista diversa rispetto alle singole, quanto legittime, aspettative.

 

Come per le voci di una piazza affollata, di gente che protesta per qualcosa o contro qualcuno, da lontano la voce appare univoca e roboante, ma se ci soffermassimo a chiedere un’opinione specifica ad ognuno dei presenti, ci accorgeremmo come nella maggior parte dei casi ognuno di essi avrebbe un’idea diversa l’una rispetto all’altra, o comunque più articolata rispetto alla voce univoca che esce nel suo complesso dalla piazza. Colmare la nostra trentennale arretratezza non sarà facile, ma un buon inizio sarebbe uscire dal gregge narcotizzato e ricominciare a pensare con la propria testa.